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IN LIBRERIA - IL LAICO IMPERTINENTE - Michele Martelli - Manifestolibri

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"Senza la laicità, la democrazia è una scatola vuota"

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mercoledì 8 maggio 2013

Politica italiana, istruzioni per l’uso



Alcune divertenti storielle e acute argomentazioni dialettiche, presenti in Paul Watzlawick in "Istruzioni per rendersi infelici", più volte riedito da Feltrinelli, ci possono aiutare a capire la situazione italiana.

I) La storia del martello. Per appendere un quadro alla parete, un uomo, che ha il chiodo ma non il martello, potrebbe chiederlo al vicino di casa, ma poi pensa: “Ieri mi ha salutato appena, forse aveva fretta, chissà, o forse ce l’ha con me, ma io un piacere così glielo farei subito, e perché lui no? - Sicuramente immagina che io abbia bisogno di lui, ma si illude, adesso basta”. Così si precipita dal vicino, e prima che questi possa aprir bocca, gli grida in faccia: “Si tenga pure il suo martello, villano!”. Il Pd aveva il martello, e 5s il chiodo, o viceversa (a scelta della tifoseria piddiellina o pentastellata, spesso molto debole la prima, e spesso da curva nord la seconda), ma il quadro non è stato appeso. Fuor di metafora, il governo del cambiamento è rimasto nel cassetto dei sogni proibiti degli italiani. E così pure un nuovo Presidente della Repubblica, che garantisse finalmente con coerenza e determinazione la legalità costituzionale.

II) Gli elefanti scacciati. Un uomo, che batteva le mani ogni dieci secondi, richiesto da un passante del perché di questo suo strano comportamento, rispose: “Per scacciare gli elefanti”. - “Elefanti? Ma qui non ci sono elefanti!”. - E lui: “Appunto”. Per il Pd il pericolo degli elefanti era rappresentato da 5s, e viceversa (lo dico sempre per avvantaggiare alternativamente le due opposte tifoserie). “Elefanti noi? Elefanti sarete voi!”. Ma, appunto, di elefanti non c’era traccia. Tuttavia, pur di scongiurare l’inesistente, immaginario pericolo dell’altro, ognuno, più o meno, si richiudeva difensivamente e inesorabilmente, dopo finte o poco credibili e comunque sempre inefficaci aperture, nel proprio rassicurante bunker. Per dirla con Leibniz, ognuno diventava una monade senza porta e senza finestre. Incapace di comunicare.

III) Il gioco a somma zero. Quando in un rapporto tra due giocatori o contendenti l’uno vince e l’altro perde, e l’uno ritiene di aver avuto totalmente ragione contro l’altro, che sarebbe stato totalmente nel torto, allora si ha il gioco a somma zero, perché la vincita dell’uno riproduce in forma compensativa la perdita dell’altro. Ma rivendicare a posteriori torti e ragione a nulla serve, se non a placare ipocritamente i propri sensi di colpa. I due giocatori, Pd e 5s nel nostro caso, potevano vincere insieme, invece hanno perso entrambi. L’unico vincitore è stato il terzo giocatore, Berlusconi, che, supportato dalla “quinta colonna” dei “101 traditori” (ignobili pugnalatori di Prodi, lo sarebbero stati anche di Rodotà), ha imposto una nuova partita con 5s fuori gioco, e un Pd ridotto a pezzi. Ed è stato così Napolitano II e governo Letta.

Ma non tutto è perduto.

Chi sostiene iperrealisticamente che il governo Letta sia l’inevitabile sbocco conclusivo di una politica inciucista durata vent’anni (“non poteva andare diversamente, finalmente si sono smascherati!”), non solo trascura la contingenza degli eventi, ma non s’avvede di fare lo stesso discorso, sebbene di segno valutativo opposto, dell’avversario che vorrebbe combattere: Berlusconi. I “101 infami del Pd” non sono ovviamente tutto il Pd, ma una minoranza, peraltro isolata e smentita da gran parte della base del partito. Hanno vinto, ma la loro vittoria non era scritta nel cielo. E soprattutto, può rivelarsi una vittoria di Pirro. La cosa dipende, come direbbe Machiavelli, dalla “Fortuna”, dall’imprevedibile casualità degli eventi, ma anche dalla “Virtù”, dall’intelligenza, capacità e abilità tattiche e politiche degli oppositori.

Per tornare alla nostra metafora del gioco, occorre mirare ad un gioco a somma diversa da zero. Infatti, il terzo giocatore potrebbe ancora essere espulso, messo fuori gioco, se gli altri due si mostrassero in grado di aprire una nuova partita, e correggere gli errori commessi nella prima. Il che implica che Sinistra Pd, Sel e 5s (le forze probabilmente coinvolgibili in un’eventuale “cantiere di sinistra”) abbandonino ciascuno i propri pregiudizi e unilateralismi, evitando le trappole autolesionistiche del tipo di cui sopra, e lavorino per preparare una nuova maggioranza in Parlamento, rovesciando quella attuale. Basterebbe predisporsi ad un’opposizione spregiudicata, accorta e costruttiva su singoli provvedimenti ad hoc, capaci di aprire e allargare le crepe e contraddizioni presenti nel campo avversario, fino a farlo “saltare”. Persino senza forse nemmeno, come azzarda qualcuno, far cadere il governo, che potrebbe subire un reimpasto. A scorno di Berlusconi, ritrasformato così in Cavaliere inesistente.

Fantapolitica? Forse sì e forse no. Certo, le condizioni oggettive e soggettive sono difficili, al limite dell’impossibile. Ma chi dispera è perduto. In una sua classica definizione, la politica è l’“arte del possibile”. O del rendere possibile domani ciò che sembra impossibile oggi. Perciò mai rassegnarsi. Audaces fortuna iuvat.

lunedì 29 aprile 2013

Aspettando Godot

Da vent’anni, dalla fine di Tangentopoli, in Italia viviamo nella tipica situazione da “teatro dell’assurdo” descritta da Samuel Beckett in Aspettando Godot. Nota la storia, anzi la non-storia. Due uomini, Estragone e Vladimiro (Gogo e Didi), coperti di stracci, affamati e assetati, aspettano sotto un albero, in una zona desolata, l’arrivo di Godot, un personaggio sconosciuto, di cui si sa solo il nome enigmatico, che dovrebbe risolvere i loro problemi di sopravvivenza. Ma Godot non arriva, la condizione esistenziale dei due uomini non muta, l’attesa si protrae illimitata, tra continui silenzi e discorsi senza senso e costrutto, nella più completa incomunicabilità, impotenza e immobilismo. I due atti della commedia si chiudono con le stesse parole: «Estragone: Allora andiamo? – Vladimiro: Andiamo. – Non si muovono». Possono morire solo di fame, sete e freddo. Ogni loro disperato tentativo di suicidarsi impiccandosi all’unico albero fallisce: così miseri che gli manca persino la corda per impiccarsi.
Ecco, gli italiani da vent’anni, e massimamente oggi, vivono come Gogo e Didi: nell’inutile, frustrante attesa che “qualcuno” venga a salvarli. A risolvere i loro angosciosi problemi (il cancro dell’illegalità e della corruzione pubblica e privata, l’occupazione partitocratica dello Stato, il malaffare di governi ad personam e ad criccam, la devastazione del mondo del lavoro e della piccola imprenditoria, la graduale distruzione del welfare, l’aumento vertiginoso della povertà di massa). “Qualcuno” volta per volta impersonato da partiti, capipartito, presidenti vari e unti, bisunti e trisunti del Signore. E che li ha puntualmente delusi, ingannati, imbrogliati, ingigantendo i loro problemi e sofferenze, la loro insicurezza e disperazione.
La storia italiana degli ultimi vent’anni? Una sequela di promesse non mantenute, di menzogne mai denunciate, di occasioni irrimediabilmente perdute. Dalla bugiarda “Rivoluzione liberale”, leggasi illiberale e autocratica, di Berlusconi all’“Ulivo” riformista di Prodi che per le divisioni interne nulla ha riformato; dal governo tecnico, esperto in macelleria sociale, di SuperMonti all’“Italia. Bene Comune” di Bersani, dissoltosi nel caos delle guerre per bande, fino all’“Arrendetevi. Siete circondati. Tutti a casa” di Grillo, il cui miope duropurismo ha fatto sì che siano ancora tutti lì, da D’Alema e i 101 “traditori” all’eterno immune Berlusconi e suoi cloni, alcuni nominati già neoministri del governo Letta (o Lettino). E intanto l’Italia, quella vera, reale, degli italiani in carne e ossa, dei Gogo e Didi, continua ad agonizzare. Tra partiti infingardi, corrotti e demagoghi. Custodi solo della propria “particolarità”.
La nascita del governo Letta è l’ultima manifestazione dell’italico “teatro dell’assurdo”. All’origine, lo stallo istituzionale postelettorale durato ben due mesi. Impossibile, per i veti incrociati, formare un governo di svolta: si potevano fare nomi al di fuori dei partiti, si poteva trattare (altro che lo stupido autolesionistico “mi sembra di stare a Ballarò!”), evitare il “Bersani o niente”, uscire dal bunker del “mai con i partiti”, ecc., ma l’egocentrismo di partito o movimento lo ha impedito. Impossibile, per gli stessi motivi, eleggere un nuovo Presidente: ognuno, con arroganza e unilateralità, propone inutilmente il suo candidato, Rodotà o Prodi, ma, senza trattative e alleanze, ambedue vengono “bruciati”, a favore della rielezione di Napolitano. Restano le ceneri, da cui risorgono le vecchie e screditate “larghe intese”, la vecchia (anti)politica.
I cittadini valuteranno dai risultati il nuovo governo. Le novità di facciata (più alta quota di donne e di giovani) sono contraddette da vecchie presenze. E l’unico Grande Elettore, in grado di condizionare il governo, di tenerlo al guinzaglio, è Berlusconi.
Nella commedia beckettiana ci sono altri due personaggi, Pozzo e Lucky: il primo si proclama il padrone/proprietario (qui, questa terra, quest’albero, questo deserto, è tutto mio), ma diventa cieco; il secondo, legato con una corda al collo, è il suo servo, pronto ad obbedire a qualsiasi comando del padrone, ma diventa muto. Appunto! Un padrone assoluto non ha bisogno di vedere: gli basta comandare; il servo non ha bisogno di parlare, anzi non deve parlare, ma solo obbedire in silenzio.
Il governo Letta? Non ti fa pensare al servo Lucky strattonato agli ordini del padrone Pozzo/B., affetto da uveite? I neoministri? Che siano o diventino anch’essi i nipoti e nipotini, magari acquisiti o adottivi, dello zio Mubarak?

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lunedì 8 aprile 2013

LA NAVE DEI FOLLI


Si racconta che in età medioevale, in alcuni paesi nordici, all’inizio della primavera tutti i pazzi, cioè i cosiddetti socialmente anormali, i diversi e i giullari, gli eretici e i dissidenti, erano caricati a forza su di una nave senza timone che, trascinata al largo dalle correnti, finiva col fracassarsi contro i ghiacci. Una durissima misura repressiva di difesa dell’ordine costituito (fatto di caste e corporazioni chiuse e privilegiate) contro chi rivendicava rinnovamento, libertà, solidarietà e giustizia.
Ebbene, viene il dubbio che quei folli, un intero popolo di naviganti sbandati, senza guida e senza bussola, oggi siamo noi, e quella nave, abbandonata alla deriva ad inizio primavera, è l’Italia. Con la differenza che allora gli imbarcati a forza erano i veri sani di mente, gli innovatori, la speranza del futuro e del progresso, mentre oggi i veri folli e insensati siamo noi. Basta dire che la nostra sorte è temporaneamente in questi giorni affidata alla nomina presidenziale di dieci saggi (inutile e stratosferica follia, impietosamente rivelata e messa a nudo dal trabocchetto della recente falsa intervista a Valerio Onida).
Folle è stato aver votato col Porcellum, la legge truffa anticostituzionale imposta dal duo Berlusconi-Bossi per rendere ingovernabile il paese. E folle chi ha votato per il M5s, eterodiretto dalla cyberditta Casaleggio-Grillo, per protesta contro la partitocrazia, sperando in una nuova forza di governo che mirasse alla rinascita del paese, ma solo per scoprire, forse troppo tardi, che delle drammatiche sorti del paese i due proprietari autoreferenziali e gestori unici e incontrollati della ditta se ne impipano.
Folle chi ha votato per il Pdl, perché è apparso incredibilmente non ancora spaventato dalle fauci tritatutto del Caimano: in giro per il Gargano, la mia terra d’origine, popolata non di grandi speculatori finanziari ed evasori fiscali, ma, in massima parte, di gente comune che vive di agricoltura, pesca, artigianato e turismo estivo, mi sono imbattuto, appena giunto in un certo paesino, in tanto di manifesti che vantavano per il Pdl il primato elettorale assoluto in Capitanata: il 54% dei consensi! Ma se allungavi lo sguardo alla serie di scheletri di palazzi abusivi sulla costa, in attesa dei promessi prossimi (berlus)condoni edilizi, potevi forse intuire di quale propaganda elettorale quei consensi erano il frutto e di chi quella gente fosse la vittima ignara.
Folle chi ha votato per il Pd, un partito dimezzato, visibile solo a profilo alternato, sì che quando vedi la parte destra, catto-renziana, in questi giorni in ascesa, scompare quella sinistra, debolmente social-riformista, e viceversa. E difatti l’elettore del Pd non sa mai se sta esprimendo un voto di destra o di sinistra. E folle, ça va sans dire, chi ha votato la “lista civica” di Monti, cioè di colui che ha tentato di evitare la bancarotta del paese condannandolo alla recessione e alla disperazione. Con una cura che ha ridotto il paziente in fin di vita.
Folle il Parlamento, paradossalmente uscito dalle elezioni senza vinti né vincitori, e perciò paralizzato, incapace di esprimere un governo che governi. E dove salta agli occhi l’irragionevolezza degli eletti. Eletti per cosa?
Non si capisce infatti perché Bersani insista ancora e ostinatamente per un governo col M5s che un governo col Pd non lo vuole: non sarebbe stato meglio proporre fin da subito un esecutivo di personalità d’alto rilievo morale e culturale, al di fuori dei partiti, con un programma di pochi punti (in primo luogo la riforma della legge elettorale) che il M5s non avrebbe potuto rifiutare? È questa, mi pare, la sostanza delle proposte costruttive avanzate sulla stampa da Dario Fo e Adriano Celentano, che sono stati colpevolmente ignorati dal Pd di Bersani, dopo esser stati ignobilmente “usati” in campagna elettorale da Grillo-Casaleggio per essere poi “gettati” via con indifferenza.
Non si capisce poi perché il Pdl voglia a tutti i costi un “governissimo” col Pd. Per soffrire masochisticamente di voltastomaco, come ha elegantemente dichiarato in tv l’ineffabile Santanchè? Oppure, come si va blaterando, per affrontare i problemi del paese? Ma chi può fidarsi di questi figuri clonati, se sono stati loro a portare il paese sull’orlo del baratro? Perché tale inaudito “lecca lecca” dei “nemici comunisti”? Qui una spiegazioncina ci sarebbe, estremamente ovvia: il Caimano, col patto di governo col Pd, cerca di proteggersi dai processi, e dal rischio imminente del carcere o dell’esilio. “Non farò la fine di Craxi”, è il suo refrain. Dell’Italia che gli importa? Faccia pure la fine della Grecia. Eppure, per liberarci di Berlusconi, basterebbe votarne l’ineleggibilità.
Non si capisce infine perché M5s non voglia nessun governo con i partiti, né col Pd né con altri: forse ignorava che un parlamento senza esecutivo non funziona? che non si può legiferare senza governare? Si dice troppo facilmente: ma M5s è una forza antisistema, vuole azzerare i partiti e la democrazia rappresentativa, mira al 100% (parola di Grillo) degli eletti. Ma, se così fosse, sarebbe una forza eversiva, anticostituzionale, e bisognerebbe trarne le conseguenze. Il 100% dei consensi è (stato) il sogno di ogni dittatura totalitaria del Novecento. Di destra o di “sinistra”. Vogliamo replicare la tragedia in farsa? E ci starebbe, visto che Grillo è un comico.
Legittimo, a questo punto, il dubbio che lo slogan della “democrazia diretta” sia la foglia di fico di qualcos’altro. Ma è possibile che 163 parlamentari di M5s accettino di ridursi ad “automi” (lo ha appena ammesso con rammarico Tommaso Currò, deputato grillino dissidente) manovrati dall’esterno da uno o due grandi burattinai? che la loro delegazione parlamentare al Quirinale sia stata capeggiata da Grillo, un non eletto e un non parlamentare? che costui imperversi sul suo blog con giudizi e pregiudizi su tutto e su tutti, esponendo alla “gogna mediatica” ogni potenziale dissidente, definito “schizzo di merda digitale”, “mercenario”, “disturbatore, “troll”? che giochi a uomo mascherato col paese ridotto allo stremo? che lui, in tandem col suo guru apocalittico Casaleggio, ci tenga tutti in pugno, in ostaggio, eletti ed elettori, da oltre un mese?
Se così fosse, non esagera molto chi teme l’avvento di un nuovo salvatore della patria: Grillusconi. Dalla padella nella brace. Che dio ce ne scampi e liberi!

sabato 19 gennaio 2013

La laicità ai tempi di Monti: chi l’ha vista?


Si accende la campagna elettorale, si discute di tutto, o quasi, eccetto che della “laicità”, la grande assente. Assente già negli atti e nei fatti del governo tecnico, e ora nell’Agenda della “Lista civica-Per Monti” e in quasi tutti gli altri programmi elettorali. Assenza che testimonia, in controluce, la presenza tuttora ingombrante dello Stato/Chiesa vaticano nella vita pubblica del nostro paese, un paese sovrano ma ancora dimezzato. Non c’è stato finora, per quanto mi risulta, ma sarei felice di essere contraddetto, un giornalista influente, uno che sia uno, della rai-tv o della carta stampata, che nei suoi interventi, articoli, interviste o talk show, a meno di qualche sporadico spunto, abbia posto nella sua centralità il tema della laicità dello Stato. Affrontare tale tema significa isolarsi, perdere lettori, audience, o, per i partiti, i voti cattolici? Se continua a prevalere questa (il)logica, l’Italia rimarrà senza speranza in coda nella classifica dei paesi più civilizzati, con rischio retrocessione.

Nell’Agenda Monti è introvabile persino la parola. “Chi l’ha vista?” Anche il termine “democrazia” compare una sola volta, di sfuggita: una “foglia di fico”. Infatti, se non c’è laicità non c’è democrazia. Eh sì, perché democrazia, al di là delle tipiche strutture istituzionali che la distinguono dall’autocrazia, è garanzia del pluralismo e dei diritti civili (autonomia e legittime differenze di condizioni, idee, scelte di vita o di morte). Eppure quella di Monti si chiama “Lista civica”. E come può essere civica (da civis = cittadino) una lista che non rispetta i diritti di ognicittadino che cattolico non sia?

Il programma elettorale di Monti riflette le politiche del suo governo tecnico. Che non è solo “tecnico-bancario”. Per il suo ossequio ai precetti “non-negoziabili” delle gerarchie cattoliche e vaticane, qualcuno l’ha giustamente definito anche “tecnico-clericale”. Tale appare infatti, sotto l’aspetto politico-legislativo, sia per ciò che non ha fatto (contro l’omofobia, o per la revisione dell’8 per mille e dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, o sulla questione delle unioni civili, o sulla contraccezione e il fine vita, e così via enumerando). Sia per ciò che ha fatto (l’aumento del finanziamento pubblico alle scuole private cattoliche, o il ricorso governativo contro la bocciatura europea della legge 40) o avrebbe dovuto fare (per es., su pressione dell’Ue, l’imposizione dell’Imu, rimasta in sospeso, sui beni immobili della Chiesa con destinazione commerciale, o un sostanzioso e doveroso aumento dei fondi statali per la scuola pubblica).

Intervistato da SkyTg24, Monti ha finalmente svelato il mistero della sua strana (anche per sua moglie) telefonata in chiesa, nella basilica di S. Pietro. No, all’altro telefonino non c’era il Padreterno né il Santo Padre (che fa lo stesso), come qualche malevolo ateo ha ipotizzato. Era soltanto impegnato a completare la lista dei “candidati” a difendere nel prossimo Parlamento la sua Agenda clerical-bancaria. E quale posto e momento simbolicamente migliore, per farlo, della basilica pietrina e in attesa dell’imminente messa del papa? Tutto torna! Tanto che il Prof. non ha tardato a spiegare in tv alcuni dettagli, si fa per dire!, del suo programma, come: «La famiglia è fatta da uomo e donna». Quindi no alle unioni civili tra gay! Potete immaginare gli applausi clerical-casinari (nelle sedi dell’Udc o nei palazzi vaticani, non cambia).

Povero Fini, che a suo rischio e pericolo, espulso dal mini-despota, dopo averlo benservito per 17 anni (“Che fai, mi cacci?”), si proponeva, nel 2010, la costruzione di una destra finalmente democratica, laica ed europea! Propositi velleitari, naufragati miseramente nelle millenarie acque sante d’Oltretevere! Ma Fini, con inaudita, eroica coerenza, come prima con l’Udc, nella lista Monti ci sta. Si dovrà tirare a campa’ o no?

Non parliamo del Pdl, ora e sempre sotto il Padrone, una volta, ora non più, l’Unto del Signore. Chiesa e Vaticano, dopo aver dato per quasi vent’anni il loro appoggioad personam al nostro Salvatore d’Arcore, ora lo dirottano sul sobrio, pio e devoto Super-Mario della Compostela. Che ingrati! “Dopo tutto quello che ho fatto per loro!”, è stato l’amaro commento del Cainanetto, a suo tempo, e per lungo tempo, benedetto da Benedetto, e di lui fervente “baciamani” nonché fedele esecutore legislativo in bioeticis. Ma non si disperi! “Loro” (nel nome del Padre, quello Santo in Vaticano) sono pronti, all’occorrenza, a (ri)cambiar stampella. Quante ne hanno (ri)usate in due mila anni di storia? Chiunque sia, Franco o Pinochet, Craxi o Andreotti, Monti o B., tutti ok! Purché si governi pro Ecclesiam. Tutto il resto poco o nulla conta, soprattutto se si tratta di singoli o famiglie comuni, inesistenti, senza voce e senza diritti di fronte all’Assoluto pseudo-hegeliano del loro Potere mondano.

Sul Pd, per carità di dio!, è il caso di dirlo, meglio non dilungarsi. Un Partito schizoide, diviso tra, da un lato, una laicità che non c’è, o che è ridotta a un pietoso, impotente vagito, fatta di promesse abbozzate e abbandonate (chi non ricorda la diabolica battuta di Bertone: “Dico o non dico? Non dico Dico”?), e dall’altro un’accettazione supina, disarmata delle politiche filo-clericali, o comunque la rinuncia pregiudiziale a combatterle. In fondo, come la passata esperienza dimostra, l’alleanza post-elettorale col “sacro” Monti può essere fatta solo all’insegna della doppia difesa di banche e Vaticano. E che tutto il resto, laicità compresa, vada pure in malora!

Di Grillo null’altro da dire che della laicità se ne impipa (parola che non guasta nel linguaggio di un comico). E che cos’è, un Ufo? Altri sono gli obiettivi! Nel suo programma elettorale, come in quello di Monti, assente, tranne uno striminzito accenno alla scuola pubblica, ogni riferimento ai temi bollenti della laicità (separazione tra Stato e Chiesa, bioetica e “valori non-negoziabili”, l’ombra degli artigli ecclesiastici e ciellini sulla sanità pubblica, e così via). Se l’intero M5S, anche nelle realtà locali (dove però sembra, per es. a Torino, volersene distaccare), sta alle imperiose direttive nazionali grilline, Chiesa e Vaticano possono dormire sonni tranquilli.

Diverso il programma della lista “Rivoluzione civile-Ingroia”, che ha un intero paragrafo dedicato alla “laicità dello Stato e alla difesa della libertà e dei diritti civili” (no all’omofobia, al razzismo contro gli immigrati, alle discriminazioni di sesso e di genere, sì alle unioni civili e all’autodeterminazione personale, in merito, si intende, all’aborto terapeutico, al fine vita, all’uso dei contraccettivi, ecc.).

Una sfida insolita, nell’Italia d’oggi. Chissà!

Di MICHELE MARTELLI
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lunedì 14 gennaio 2013

Servizio pubblico o privato?



Formidabile l’accoppiata Santoro-Berlusconi! Dopo la trasmissione di giovedì a La 7, Santoro ha registrato una audience da favola, circa 9 milioni di telespettatori, e il Pdl, secondo alcuni sondaggi, un aumento di consensi elettorali dall’1 al 3%. Ancora dieci di questi servizievoli pubblici talk show televisivi, e il nano mediatico potrebbe volare (ma facciamo i dovuti scongiuri) sulle ali di corvo di un malaugurabile 30-35% di consensi. E cioè risalire dal sottosuolo dorato della sua villa arcoriana, in cui si era furtivamente nascosto (come il famigerato baffetto di metà secolo nel suo bunker) temendo il peggio per le sue tante, troppe malefatte, e ripresentarsi ancora una volta come il Salvatore della nazione. Ma da chi? Ovvio. Non solo dal solito “comunismo” che non c’è, immaginario, allucinatorio, un incubo che disturba da decenni i suoi sogni regali, ma dal montismo che c’è, reale, concorrenziale, e che purtroppo Egli stesso ha partorito dalle sue viscere: una clonazione, in aeconomicis più perversa dell’originale.

Un miracolo! Santoro si è rivelato per B. un vero San-Toro mandatogli dall’alto via etere. Ah, ce ne fossero di San-Tori così! Perché sacrificarli, matarli, se è una pacchia cavalcarli? Ehi, non sono mica Cavaliere solo a parole? Non ho montato (oh, che parola evocatrice di ricordi scatenati!) i cavalli dello stalliere Mangano? Domare un finto toro, anzi inc…ornarlo con le sue stesse corna (il suo talk show) non dà forse più gusto?

In un solo momento Santoro è parso sacrosantamente infuriarsi: per difendere Travaglio dalla violenta letterina di accuse e insulti indirizzatagli dal “Cainano”. E qui il conduttore ha reagito con decisione e l’energia adamantina che lo ha reso famoso. Era un palese attacco alla libertà di stampa, e l’illiberale Cav. andava contestato e zittito. Se il lodevole scopo della trasmissione era trasformare B. in un interlocutore normale, capace di un dialogo civile, pacato e rispettoso dell’“altro”, questo “incidente” ne ha segnato il fallimento. B. ha colto il momento per rivelare la sua abissale “anomalia” rispetto alla “democrazia”, la sua immutata natura e vocazione autoritaria.

Ma nel complesso, l’opinione, non solo mia, è che tutta la trasmissione sia stata un’occasione persa. Persa per fare ancora una volta, come molti ci aspettavamo, del buon giornalismo. Ah, la Gabanelli! Ah, la stampa/tv di tipo anglosassone! Santoro ha purtroppo cominciato nel segno della rinuncia, della resa. Finiti i tempi di “Granada”, della corrida, dei “coltelli”. “Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scurdàmmoce ‘o ppassato, simmo ’e Napule, paisà!”. Siamo in Italia, ma fa lo stesso.

Nel rapporto intervistato-intervistatore è doverosa la garbatezza, il gentlemen’s agreement. Non la rinuncia a duellare con l’intervistato, a inchiodarlo sui fatti. E così lo showman campano, in passato vittima egli stesso, insieme con Travaglio e altri, di editti bulgari (“l’uso criminoso della tv”), ha lasciato sorprendentemente che il bulgaro matador, acciaccato e “rifatto”, si ergesse pomposo nell’arena.

Berlusconi ha potuto così quasi spadroneggiare: risposte fasulle, bugiarde, finti sorrisi adulatori, voce grossa e imperiosa, gesti ingiuriosi (pulire la sedia “sporcata” da Travaglio). Si capisce la difficoltà del conduttore di intervenire energicamente, per non mandare all’aria la trasmissione. Ma dopo dieci anni di conflitti, accuse e controaccuse, qualcosa di più da Santoro e dagli altri ci si poteva aspettare. Pochi e poco preparati sono parsi gli interventi giornalistici: Le due belle sirene-giornaliste? Domande precise e inaggirabili, ma senza nervo. Travaglio? Inaspettatamente al di sotto della sua fama, delle sue capacità e dei meriti conquistati sul campo: un lacrimoso monologo su quanto “bene” il nostro Salvatore di Arcore poteva fare in vent’anni e non ha fatto per noi poveri disgraziati d’Italia. E chi non avrebbe di più gradito uno dei suoi soliti interventi puntuali, basati su una attenta e preziosa documentazione fattuale, ed esposti con quella sua sottile ed elegante ironia e quel suo pungente sarcasmo con cui ci ha dilettati in questi anni e di cui si è dimostrato maestro difficilmente superabile?

E invece è successo l’imprevedibile (da molti di noi increduli telespettatori). L’“ometto di Arcore”, ringalluzzito dall’assenza del fuoco di fila di critiche dure, senza vie di scampo, basate sui fatti, con documenti alla mano, ha tutto lo spazio, dopo i servizi (ma non era meglio trasmettere le risatine di intesa tra Merkel e Sarkozy?), per esporre la propria difesa d’ufficio, quasi senza contraddittorio, se non il pungolo di battute qua e là disseminate. E così l’intervistato può sviluppare i suoi attacchi. Dalla Costituzione (da riformare-deformare presidenzialisticamente) all’Alta Corte (“comunista e faziosa”, non lo sarebbe, ovviamente, se prona alla frenetica decretazione ad personam), dalla magistratura (rea di ostinarsi a voler sottoporre alla legge e ai codici anche gli intoccabili B. e accoliti tipo Dell’Utri) alla stampa internazionale anch’essa di “sinistra” (l’“Economist”, figuriamoci!) al Monti delle impopolari misure fiscali e di austerità (“in parlamento osteggiate dal Pdl”: ma quando mai?). Un’alluvione di intenti, autogiustificazioni e menzogne reazionarie!

Qualche scambio di battute al vetriolo c’è stata, certo. Ma poche e deboli le interruzioni dovute, le precisazioni fattuali, le talvolta vigorose contro-argomentazioni tipiche del più alto giornalismo europeo. A dispetto del suo bellissimo nome, forse bisogna dire che questa volta “Servizio Pubblico” si è dimostrato meno pubblico, e più “Privato”, più attento all’audience che a ristabilire una qualche verità condivisibile sui vent’anni dell’Italia violata.

Credo che Santoro abbia tutt’altro interesse che finire la sua straordinaria carriera di giornalista antiregime, democratico e controcorrente, passando, “mi si consenta” una battuta cattiva e ingenerosa, da “Servire il popolo” a “Servire il Popolo (della libertà)”.

Di Michele Martelli
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domenica 30 dicembre 2012

Rita Levi Montalcini, la scienziata dal sorriso dolce


"La mia intelligenza? Più che mediocre. I miei unici meriti sono stati impegno e ottimismo" disse nel 2008 accogliendo la laurea honoris causa alla Bicocca. Fragile e sottile, anche, è stata fino a ieri Rita Levi Montalcini, nata a Torino il 22 aprile 1909 e vincitrice del Nobel per la Medicina nel 1986. Con il suo corpo esile e gli occhi mare limpido è riuscita comunque a iscriversi all'università contro il volere del padre, a realizzare prima un laboratorio in casa per sfuggire alle leggi razziste e poi a lavorare negli Stati Uniti per quasi 30 anni, convincendo un mondo scientifico assai scettico dell'importanza di quel Ngf "Nerve growth factor" da lei osservato nell'oculare di un microscopio.

Poteva bastare, come dimostrazione di "impegno e ottimismo". Ma da quando nel 2001 è stata nominata senatrice a vita, a Rita Levi Montalcini è toccato anche ascoltare gli insulti di Storace ("Le porteremo a casa le stampelle") alla vigilia del voto della Finanziaria del 2007 essenziale per la sopravvivenza del governo Prodi. Quelli di Roberto Castelli, che sempre nel 2007 definì "uno spreco e un mercimonio" i finanziamenti all'European Brain Research Institute da lei diretto. Per finire ad agosto del 2011 con l'uscita di Umberto Bossi: "Scilipoti? Meglio lui di quella scienziata".

"Non sto neanche a sentirli" replicava lei senza perdere il sorriso dolce. In un articolo su Science nel 2000, Rita Levi Montalcini descrisse il suo carattere

così, con poche splendide pennellate: "L'assenza di complessi psicologici, la tenacia nel seguire la strada che ritenevo giusta, l'abitudine a sottovalutare gli ostacoli - un tratto che ho ereditato da mio padre - mi hanno aiutato enormemente ad affrontare le difficoltà della vita. Ai miei genitori devo anche la tendenza a guardare gli altri con simpatia e senza diffidenza".

Oltre al padre ingegnere e matematico e alla madre pittrice, la sua famiglia era composta da un fratello e due sorelle, di cui una - l'adorata Paola - gemella. Quando l'austero capofamiglia le negò l'università in quanto donna, lei l'affrontò a viso aperto e a vent'anni ottenne di iscriversi a medicina. Quando il regime fascista la espulse dall'ateneo torinese, lei nel 1939 si costruì un laboratorio nella sua casa di corso Re Umberto. Vennero i bombardamenti, e nel 1941 tutti gli strumenti di ricerca furono reinstallati nella nuova residenza sulle colline di Asti. A Firenze poco prima della Liberazione curò i rifugiati scappati dal Nord. Nell'autunno del 1947 dall'università di Washington a Saint Louis il professor Viktor Hamburger la invitò a trascorrere un semestre negli Usa. I risultati sempre più interessanti le impedirono di tornare in Italia alla fine del semestre, e anche negli oltre vent'anni successivi. Nel corso dei quali, a partire dal '69 fino al '78 il Consiglio Nazionale delle Ricerche le affidò anche la direzione dell'Istituto di biologia cellulare.

Nel laboratorio di Saint Louis, Rita Levi Montalcini scoprì quel potente "elisir" di crescita che è Ngf. Bastava iniettarne una quantità infinitesima in una provetta con dentro alcune cellule nervose e attendere un giorno. Dalle cellule, in sole 24 ore, iniziava a svilupparsi un alone talmente ricco di filamenti da renderle simile a un Sole pieno di raggi. Il fattore di crescita delle cellule nervose era solo il primo di tanti ingredienti che gli organismi viventi usano per trasmettere informazioni al loro interno. Altre centinaia di molecole simili sarebbero state scoperte in seguito. Ma in quel laboratorio di Saint Louis negli anni '50 si iniziò a capire come mai un essere vivente nasca da una singola cellula ma riesca a diventare col tempo un'architettura composta da decine di tessuti diversi. Sono i fattori di crescita a indicare la strada a ciascun segmento di un organismo. Bastano poche molecole di Ngf in una zona del corpo per farvi crescere le cellule del sistema nervoso necessarie al suo perfetto funzionamento.

"La scoperta di Ngf - spiegò oltre trent'anni più tardi il comitato Nobel a Stoccolma assegnandole il premio assieme al collega Stanley Cohen - è l'esempio di come un osservatore acuto riesca a elaborare un concetto a partire da un apparente caos". Rita Levi Montalcini è stata una delle 10 donne (contro 189 uomini) a ricevere il premio scientifico più prestigioso. Ma forse l'unica ad accompagnare i suoi articoli scientifici con illustrazioni tanto eleganti quanti i vestiti che amava disegnare per se stessa.

Sull'origine della sua capacità di osservazione, Rita Levi Montalcini ha sempre avuto le idee chiare, attribuendo parte del suo successo al maestro Giuseppe Levi, il professore di istologia di Torino le cui lezioni formarono altri due Nobel per la medicina: Salvador Luria e Renato Dulbecco, anche lui scomparso recentemente. Era lui uno degli amici più cari della scienziata, che in un'intervista a Repubblica nel 2008 rivelò: "Quando avevo tre anni decisi che non mi sarei mai sposata" e in un'altra a Omni nel 1998 spiegò che anche nel matrimonio fra due persone brillanti "una finisce col soffrire perché l'altra ha più successo". Lei, che di complessi non soffriva, non si è mai lamentata degli occhi che non vedevano quasi più e delle protesi acustiche che la mantenevano in contatto con gli altri. E fino all'ultimo ai governi italiani ha continuato a chiedere: "Non cancellate il futuro di tanti giovani ricercatori che coltivano la speranza di lavorare in Italia".


DI ELENA DUSI da http://www.repubblica.it/scienze/2012/12/30/news/montalcini-49677597/?ref=HREA-1

martedì 13 novembre 2012

Grillismo: movimento o partito?

di Michele Martelli 
Si chiama M5S (MoVimento 5 Stelle), ma la questione che si pone oggi, dopo il clamoroso successo elettorale in Sicilia e l’autoproclamazione di Beppe Grillo sul web a «capo politico» del movimento, è a mio parere la seguente: il grillismo è ancora un movimento, se mai lo è stato, o non lo è più? Non è ancora un partito o lo è già in nuce? E se lo è, quale tipo di partito? E per fare l’Altrapolitica o la Stessapolitica?

Per aiutarci a capire, ci possono essere utili due schemi concettuali, tratti da due filosofi novecenteschi che sono ideologicamente agli antipodi, anarco-comunista il primo, filonazista il secondo: Jean Paul Sartre e Carl Schmitt.

Espongo qui brevemente i due schemi.

Nel Libro secondo della Critica della ragione dialettica (1960), Sartre sostiene che i periodi rivoluzionari si dividono in tre fasi: 1) la genesi del «gruppo in fusione»; 2) il predominio della «Fraternità-Terrore», che sfocia nell’«istituzionalizzazione del capo»; 3) la ri-formazione delle istituzioni statuali. Prima di «unirsi in interiorità» nel gruppo in fusione, gli individui sono «uniti in esteriorità», dispersi, frammentati, atomizzati, estraniati nei «collettivi seriali» (esempio: gli assembramenti in attesa alla fermata dell’autobus o della metro, o le masse elettorali), e tali tornano ad essere nella terza fase, la restaurazione politica post-rivoluzionaria. Rispetto alla Rivoluzione francese dell’89, che per Sartre funge da modello, le tre fasi sono: la presa della Bastiglia, il Terrore di Robespierre, il Termidoro. A giudizio del filosofo francese, il pendolo della storia umana oscilla dalla “serie” al “gruppo” e dal “gruppo” alla “serie”.

Per Carl Schmitt, secondo quanto egli scrive in La dittatura (1921), Teologia politica (1922) e altrove, le crisi politico-sociali radicali (vedi la Rivoluzione inglese di Cromwell, l’89 francese, l’Ottobre bolscevico, ma anche la crisi della Germania di Weimar), che segnano la tragica scomparsa dei vecchi ordinamenti politici, non sono che caos nichilistico, totale sospensione e assenza di norme, caduta verticale, abissale nel pre-politico e pre-giuridico. Come se ne esce? Con lo «stato d’eccezione». Col «decisionismo». Con l’uomo, l’élite, il partito forte, che interviene per imporre autoritativamente un nuovo ordine. Non importa quale e come, importa che lo faccia. Ciò che conta non è il «che cosa» si fa, ma «chi» decide di farlo, il «dittatore», che si auto-attribuisce un potere sovrano assoluto, incondizionato, un potere dall’alto. Per Schmitt, il pendolo della storia oscilla dal caos all’ordine, dall’anarchia alla «dittatura» (che può essere, diciamo così, sia di destra sia di “sinistra”). Col rischio immanente, e sempre incombente, che ordine e dittatura riprecipitino nel caos e nell’anarchia.

Questa dialettica bloccata, anche se senza le connotazioni tragiche che ne danno Sartre e Schmitt, l’abbiamo vista operante negli ultimi tempi in più occasioni. Per esempio: tanti movimenti (il Sessantotto, i gruppi femministi, la “Pantera” e l’“Onda anomala” studentesca, i girotondi, “Se non ora quando”, ma si possono citare i recenti “Indignados” e “Occupy Wall Street”) sono falliti, scomparsi, per non essere riusciti a strutturarsi, a darsi una forma-partito, organizzativa e permanente, a istituzionalizzarsi. Ma d’altro canto i movimenti che hanno trovato una forma organizzativa stabile hanno però finito col cambiare pelle, col trasformarsi in organizzazioni, comitati e partiti più o meno burocratici, gerarchici e centralisti (Rifondazione comunista, gruppi dipietristi, cellule vendoliane, raggruppamenti ciascuno dei quali ha espresso il suo sartriano “capo istituzionalizzato” o il suo schmittiano “dittatore”).

Ora il M5S si trova ad un bivio.

Fino alle amministrative siciliane, è stato un “gruppo in fusione” anomalo e contraddittorio. Da un lato, movimento dal basso, manifestatosi soprattutto in Rete, virtualmente, in forma disordinata, spontanea, diretta, con la sostanziale accettazione della linea anti-casta di Grillo-Casaleggio. Era anti-politica? No, era il segnale, nella crisi che stiamo attraversando, della seria e drammatica richiesta di un altro modo di far politica, di Altrapolitica (rifiuto della partitocrazia e dell’auroferenzialità dei politici, denuncia dei privilegi, della corruzione e del saccheggio della cosa pubblica, voglia di cambiamento radicale, di controllo, partecipazione, democrazia diretta, ecc.). Dall’altro, nella interminabile serie delle sue assemblee-spettacoli, Grillo, con argomentazioni-flash, spesso urlate, lazzi, turpiloqui, imitazioni, barzellette, formulava dall’alto le sue radicali critiche e proposte politiche. Indisturbato. Senza confronti e contraddittorî. Con monologhi alla ricerca dell’applauso, mirati a trasformare gli spettatori in potenziali seguaci. Si presentava come il “portavoce” del movimento. Ne era invece già di fatto il “capo”, la guida carismatica, che ne delineava programmi, scelte, comportamenti.

Dopo il voto siciliano, nell’ormai famoso documento sul web Grillo si è auto-eletto a “capo politico”, “istituzionalizzato”, direbbe Sartre, ritenendo di impersonare un’autorità sovrana al di sopra del movimento, una sorta di padre-padrone (un premier in pectore?) che legifera imperativamente, in modo “decisionistico”, direbbe Schmitt, sulle nuove regole (iscrizione, legittimità di appartenenza, candidabilità, ecc.), di cui si è dichiarato al tempo stesso l’unico indiscutibile custode e controllore. Per il bene del movimento, s’intende! Non sapendo, o fingendo di non sapere, che il paternalismo, in politica, è il preannuncio e al tempo stesso il fratello gemello dell’autocratismo.

Dall’atto imperativo di Grillo sono nate infatti le prime serie contraddizioni e dissensi nel M5S. Tra chi, in nome dell’autonomia degli iscritti e dell’orizzontalità del movimento, ne lamenta l’assenza di «democrazia interna» o la prossimità mistica a «Scientology» (Favia, Salsi e altri). E chi invece difende a spada tratta Grillo e il suo diktat, accusando i dissidenti di incoerenza, eresia, tradimento, sbeffeggiandoli e screditandoli anche a livello personale (carrieristi, succubi, se donne, del punto G, ecc.). E cioè applicando sia la categoria sartriana della “Fraternità-Terrore” (in caso di discordia, la Fraternità si trasforma in Terrore, in violenza eliminatoria dell’altro, come è espresso anche dal proverbio popolare italiano “fratello-coltello”) sia la dicotomia schmittiana dell’«amico-nemico» (in politica o concordi con me, ti sottometti alla mia autorità, al mio comando, oppure, se ti opponi, sei un nemico da abbattere, e come tale vai trattato). Oggi, nel M5S, ciò significa ovviamente ricorso ai soli mezzi che la situazione consente, e cioè: discredito, emarginazione, espulsione del dissidente. E dissidente è chiunque in questa fase non riconosce il “potere costituente”, dall’alto, imposto da Grillo. In contraddizione con la storia sin qui trascorsa del movimento.

La sfida di fronte a cui oggi si trova il M5S è a mio avviso la seguente.

O riesce a trovare, a inventare una nuova e originale forma organizzativa, stabile ma “liquida”, capace di coniugare democrazia diretta e rappresentativa, ma garantendo il primato della “base”, la sua sovranità, l’esercizio di un efficace controllo dal basso su dirigenti ed eletti, consiglieri e parlamentari, superando quella dialettica bloccata di cui parlavo dianzi, cosa di cui finora nessun movimento, nessun “gruppo in fusione” è stato capace: un tale superamento sarebbe una novità politica e storica epocale.
Oppure è destinato a cambiare presto natura, a contaminarsi e degradarsi, ad omologarsi al tran-tran della vecchia politica, della Stessapolitica sprezzantemente autoreferenziale e “casto-cratica” che ha imperversato finora.
Michele Martelli

«Ma perchè il Vangelo non dice mai se

Cristo ridesse?», chiesi senza una buona

ragione.

«Sono state legioni a domandarsi se Cristo

abbia riso. Credo che non abbia mai riso

perchè, onniscente come doveva essere il

figlio di Dio, sapeva cosa avremmo fatto

noi cristiani...»


Umberto Eco


Michele Martelli
Michele Martelli
Michele Martelli